Cambiamenti

di Luciano Iannuso

Sarei prudente a dire che questa pandemia ha generato o genererà cambiamenti, a breve.
Al momento, e almeno per il futuro prossimo, abbiamo a che fare tutt’al più con modificazioni del presente. Il che vuol dire che non si fa che adattare alle circostanze attuali quello che avevamo, quello che facevamo e quello che volevamo.
Questo adattamento da una parte pare legittimo dopo poco più di un mese dalla chiusura totale, dall’altra sembra giustificabile perché nella storia dell’homo ogni cambiamento passa per un adattamento.

Ogni aspetto della nostra vita è stato coinvolto da quando la gran parte di noi è chiuso in casa. Sono venuti a modificarsi i rapporti dentro le mura domestiche, il modo di fare la spesa, di lavorare (o non), di studiare, di stare coi parenti e gli amici, persino come vivere la propria fede.
Nessuno di noi era preparato a tutte queste modificazioni e non tutte insieme; almeno se la vita in società prima della pandemia assumeva una sostanza più o meno vincolante. Così ci siamo ovviamente, necessariamente adattati.

Questo adattamento, tuttavia, ha voluto significare che ciò che era prima, così come era prima si è adeguato alle circostanze. Questo allineamento alle condizioni attuali non può fregiarsi ancora di un nome nobile qual è “cambiamento”.
Oggi non ci sono le condizioni perché possiamo effettivamente cambiare, e che ci siano domani, immediato o futuribile, è tutto da vedere.

Un esempio ci gioverà. L’esplosione del digitale nell’ultimo mese è stata evidente: smart working, scuola da casa, videochiamate e continuate pure l’elenco. Tuttavia, allo stato attuale il digitale è esploso non in quanto tale, ma in quanto sostituto della distanza fisica. Se in tempo di pace non c’era occasione di riflettere e far buon uso delle risorse proprie del digitale, figuriamoci in piena pandemia!
Sarebbe dunque da porsi la domanda, di seguito, circa il valore proprio dello stare in famiglia, il valore proprio dell’isolamento sociale, il valore proprio della sanità pubblica e gratuita, il valore proprio della politica, il valore proprio del bene comune, il valore proprio della scuola, il valore proprio della comunicazione e dell’economia e della finanza.
In altri termini, questo isolamento forzato ci ha letteralmente costretti a prendere sul serio cose che, in precedenza, la nostra dabbenaggine trascurava. Però, a questo punto, oltre il trauma, non riusciamo ancora a farci queste domande.

Per il momento ci siamo adattati e abbiamo adattato il nostro mondo; c’è ancora un margine per parlare di cambiamento, ma potrebbe non esserci affatto. Fin tanto che continuiamo a proporre soluzioni alternative a ciò che già conosciamo, non siamo chiaramente pronti a cambiare.

Il cambiamento porta con sé il carico della novità. Se non saremo in grado sopportarne il peso semplicemente ci adegueremo all’evolversi dei fatti, trascinati dalla corrente, non governando la nostra misera scialuppa.
Questo adattamento ha una caratteristica peculiare: se tirato troppo a lungo, offrirà un carico di vittime che faremo fatica a dimenticare. Per intenderci, tutti coloro che fino ad oggi sono rimasti appesi a un filo, saranno i primi a cadere e a soccombere.

Quando parliamo di cambiamento, quindi, non stiamo parlando di progresso economico, non di una banale resilienza asservita alle leggi di mercato. L’unico progresso che ci possiamo augurare è quello di valorizzare il proprio delle cose e delle persone.

Si obietterà che questo non ci dà da mangiare. È giusto, il sistema attuale te ne lascia ancora l’illusione, a dispetto di coloro che per fame e per ingiustizia già muoiono. Ma noi non lo vediamo, quindi non lo sappiamo.

Da più parti ci viene suggerito, giustamente, di coltivare la speranza. Chi in vita sua ha sperato, sa che può condurre ad una delusione molto dolorosa.
Su cosa fonderemo la nostra speranza questa volta?
Ci stiamo nuovamente affrettando a recuperare l’illusione novecentesca di prendere e occupare spazi: prima o poi un virus o un nemico qualunque ce li porterà via, se non a noi, ai nostri figli.

E se provassimo a chiederci cosa abbiamo da dare, personalmente e collettivamente? Se volessimo recuperare il senso del proprio, senza dover accondiscendere alla mediocrità; se desiderassimo chiederci che senso ha il mio stare al mondo, che senso ha essere italiano ed europeo oggi?

Se qualcuno continua a pensare che tutto ciò non ci fa mangiare, io temo per costui che assicura le sue certezze e il suo risultato su ciò e quanto può ingurgitare, e non saprebbe dire il suo nome a voce alta.

Quando potremo dare del proprio, inneggeremo volentieri al cambiamento.
Nella storia dell’umanità è accaduto, raramente, ma è accaduto!



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