Eppure appaio


 di Luciano Iannuso

Sono riuscito ad andare al cinema. Ieri ho visto Volevo nascondermi.

Non è necessario che anch’io tessa le lodi di Elio Germano che, ancora una volta, ha dimostrato di essere un grande attore. Il suo Orso d’Argento alla Berlinale è più che meritato.
Più che tesserne le lodi, dicevo, mi pare più giusto ringraziarlo. Nelle sue interpretazioni c’è un tratto distintivo, caratteristico, personale. Il suo corpo d’attore nasconde e disvela, tace e urla il paradosso di essere allo stesso tempo l’uomo e il personaggio; “volevo nascondermi” è il titolo giusto per Toni Ligabue, ma anche per Elio Germano che appaiano e scompaiono, insieme e differentemente, l’un per l’altro e l’uno a prescindere dall’altro.
Il paradosso è il limite di ogni logica, ed è in funzione di questo limite che la logica purifica il suo valore.

Non si poteva non scorgere sotto il labbro inferiore pendente di Ligabue la gobba di Leopardi, dietro il profumo dei colori il gusto del gelato ai tavolini del Caffè Angioli di Napoli.
Il corpo malato, deforme, apparentemente senza passioni torna come un fantasma dalle nostre più contemporanee paure. La paura di un corpo sovraesposto che è dato davanti agli altri, alla mercé di ogni sguardo, giudizio. Non è una questione di apparenze, è chiaro, perché una serie di accorgimenti quali il trucco, l’abito, la chirurgia plastica e i filtri su Instagram dovrebbero aiutarci ad allontanare questo mostro generatore di paure, ma non è così. Il corpo è consegnato agli altri prima ancora che noi ne possiamo avere l’intenzione, coltivarne il motivo o il desiderio. E questo sfugge al nostro controllo e ogni ritocco è solo un tentativo di nascondere il deforme.

Un corpo non è deforme se è ingobbito, se affetto da una qualche disabilità oppure semplicemente brutto e ripugnante. È deforme solo e soltanto se non è con-forme. Quindi tutti i corpi lo sono.
La non conformità è facile da rintracciare in chiunque abbia una menomazione fisica e i “conformi” credono di esserne sfuggiti. In questo caso neppure l’italiano ci aiuta: se tu hai una meno-mazione lasciamo intendere che io abbia qualcosa in più.
Eppure ogni corpo è deforme, ha un’evidenza già non conforme. Il tentativo generalizzato è quello di rendere accettabile il proprio corpo, limando qualsiasi inopportuna differenza. Questo non apparteneva a Leopardi, a Ligabue e a tante persone che sanno vivere con la sovraesposizione del proprio corpo.

Tutto ciò non è contraddetto dal desiderio di essere riconosciuti, apprezzati e stimati (specie negli ultimi tempi), anzi lo conferma. Attraverso la sovraesposizione del nostro corpo noi narriamo, tra conscio e inconscio, chi siamo e chi vogliamo essere agli occhi degli altri: fumiamo in un certo modo e sediamo a tavola in una certa posizione; assumiamo l’aria di lettori o di fieri ginnici, preghiamo in ginocchio, in piedi, sdraiati; persino quando dormiamo assumiamo le posizioni del corpo che più (ci) narrano qualcosa di noi. 

Per quanti sforzi faremo non riusciremo comunque a sottrarre il nostro corpo al suo esser gettato nel mondo. Persino una vita eremitica non nasconde un corpo, ma lo espone per la sua assenza. E una quantità bulimica di foto e video che ci ritraggono hanno solo invertito il rapporto tra oggetto e immagine: il corpo ora è immagine di una realtà, non virtuale, non mediatica, ma che semplicemente viaggia per una rete interconnessa.
A ruoli invertiti, ora ad essere medium di una realtà altra è il corpo che si racconta, crea mondi, fantasie e desideri, opportunità. E con questi il senso del limite e dell’infinito, del possibile e dell’impossibile, della meraviglia e della noia, del tempo e dello spazio.

Volevo solo tranquillizzare che non è ancora finita l’era del corpo fisico, vivente. Per il suo essere sovraesposto e deforme, vulnerabile e indecente, è quanto mai unico, raro, degno di un qualche interesse da parte nostra.

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