La stanchezza

di Luciano Iannuso


Oggi sono stato colpito da una frase che, citata, è stata pensata, elaborata e pronunciata da un bambino: "L'infinito è una parola che serve per non dire troppi numeri, altrimenti ci si stanca"

Un fine commentatore filosofico avrebbe da dire molte parole per sciogliere questa frase, ma alla fine si stancherebbe e metterebbe un punto, per il semplice fatto che questa frase parla di se stessa.

Ma andiamo per ordine. Togliamo tutti i filtri interpretativi. Leggiamo questa frase pronunciata da un bambino di 8 anni, che chiameremo Giacomo. 
Egli ha trovato che non possiamo tenere in una mano l'infinito, ma sempre lo rincorriamo senza mai arrivarci. Dovremmo dire a Giacomo che questa cosa l'aveva già detta Zenone di Elea e, in modo diverso, tanti altri, anche Kant.

Insomma: Giacomo si è accorto che col pensiero ci è possibile arrivare all'infinito, all'eterno, a Dio. Sono tutte condizioni fuori dal tempo. Ricorriamo al linguaggio, alle parole, per dare un'ancora alla vertigine di questo pensiero senza tempo. 
Eppure se io dico "pane" tu capisci a cosa mi riferisco; persino se dico "bread" mi passerai il pane, ma se dico "infinito" non potrai indicarmi niente. Giacomo ha detto: "è una parola"!

Se è una parola, allora l'infinito non esiste? Questo non lo sappiamo. Dobbiamo saperci porre le domande giuste. Prendiamo, allora, coscienza del fatto che pensiamo l'infinito e non possiamo conoscerlo: oltre non possiamo andare, sennò finisce che trasformiamo la filosofia in fantascienza. 

Due paroline sull'infinità numerica ci starebbero bene, ma tralasciamo.

La parte più interessante della citazione giacomina è: "altrimenti ci si stanca".
"Altrimenti" è un avverbio avversativo; c'è qualcosa di altro o alternativo da esprimere. Giacomo sostiene che il rimedio contro la stanchezza sia il linguaggio. Sì, ma quale stanchezza?
La stanchezza del fiato che pronuncia i numeri? O della mano con la quale li scriviamo?
Potrebbe darsi anche che sia una stanchezza dovuta al fatto che dobbiamo andare a mangiare, a studiare o a lavorare. 



Ma è poi così stancante? Bè in effetti Giacomo ha ragione. Con il linguaggio noi possiamo parlare di Barack Obama senza vederlo: pensa se dovessimo raggiungerlo ogni volta che vogliamo "dire" qualcosa su di lui. Con il linguaggio annotiamo la lista della spesa, perché sennò al supermercato vaghiamo nel nulla ed evitiamo la stanchezza della memoria.

Nello stesso tempo, però, ci sono dei folli che, da generazioni, non si sono stancati di aggiungere decimali al pi greco e sanno benissimo che qualcuno ancora continuerà; ma a che serve? 
A dirla tutta, non potremmo parlare di Obama, se almeno un giornalista dall'Italia non l'avesse raggiunto per noi, lo avesse ascoltato con le sue orecchie e trasmesso a noi con il suo fiato o con la stanchezza del suo pigiare su una tastiera. E la lista della spesa non fa la spesa.

La stanchezza, caro Giacomo, non è affatto da evitare. La stanchezza è il richiamo ad impegnarsi per qualcosa che non inizia e non finisce con noi. E' tutta nel nostro corpo, nel nostro muoverci, osservare, percepire, parlare. L'infinito nasce da questo corpo che ti porti dietro in continuazione, non da un pensiero che non contieni.

Giacomo, cerca il tuo pi greco!


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