Il sovrano popolare

di Luciano Iannuso

In questi giorni, dopo il voto in Gran Bretagna, si fa un gran parlare di sovranità popolare. C'è chi sostiene che la voce del popolo è indiscutibile (come la sarebbe quella di un sovrano, appunto); chi sostiene che non sempre il popolo può essere tirato in ballo per prendere delle decisioni politiche così importanti; e, infine, chi, pur legittimando il voto popolare, sarebbe ben contento che a qualcuno non fosse concesso esprimersi.

Rispettivamente. 

Il primo caso è solo un retaggio monarchico del concetto di sovranità; non possiamo qui approfondire la questione, ma è chiaro che un sovrano mon-archico e un sovrano poli-archico sono ben diversi fra loro e che trattarli alla stessa maniera è semplicemente insensato; fosse anche solo per il fatto che il primo non ammette contraddittorio, mentre nell'altro trovi tutto e il contrario di tutto, dove la minoranza del popolo, altroché sovrana, è suddita e suddita della peggior specie.

Il secondo caso invece ha subito un vizio di forma. Chi decide quando il popolo può o non può essere coinvolto nelle decisioni politiche? A che titolo, se non imponendo ad una certa intermittenza l'esercizio della sovranità? Chiaramente, la chimera, anche italiana, della partecipazione diretta del popolo non appartiene, grazie a Dio, alle nostre democrazie moderne. Noi eleggiamo dei rappresentanti nelle nostre istituzioni che, si badi bene, non sono dei semplici robot portavoce del popolo. A ciascuno di loro è chiesto anzitutto di assumere la responsabilità di decidere in favore del popolo, non come il popolo vuole. 
Al contrario di quello che dicono in molti, il popolo deve essere sempre coinvolto nelle decisioni più importanti, come per la Brexit o riforme costituzionali.
Il rischio che bisogna pur correre, d'altra parte, è che il referendum possa diventare una forma moderna del vecchio plebiscito che incorona o detronizza: quello che Renzi sta facendo in Italia, per intenderci.



Il terzo caso, se volete, è il più interessante. E' il più interessante perché, per lo più, è sostenuto da coloro che difendono con vigore la democrazia. Questo paradossale comportamento è dato dal fatto che la sovranità popolare è pensata, ma solo pensata, su un popolo educato, istruito, politicamente intelligente. E di questa pasta è fatta tutta la retorica dell'educazione civile, della scuola che forma cittadini pensanti e stupidaggini varie.
Il popolo non è fatto mai totalmente di persone che sanno quello che vogliono, che si beano dei principi elementari di democrazia. Un popolo è fatto, anzitutto, di uomini e di donne con vite molto concrete: persone che, a buon diritto, vogliono lavorare e mandare i figli a scuola, che vogliono una casa, che non vogliono uscire per strada con la paura di essere derubati, che vogliono una sanità che funzioni e che garantisca il diritto alla salute e cose simili. Quando il governante non sa garantire questo, quando i ministeri girano intorno al Ministero dell'Economia, e non questo intorno al Ministero del Lavoro, dell'Istruzione, delle Politiche Sociali, della Cultura, allora il popolo sa benissimo da che parte stare.

La sovranità popolare, dunque, dovrebbe essere valorizzata non come "scettro" da brandire, ma come esperimento continuo di democrazia. Anch'io sono convinto che i britannici abbiano fatto un grossissimo errore; ma forse, allora, questo significa che questa Europa non è più l'Europa dei popoli. La sovranità popolare non è un esercizio del potere (vedi l'antico retaggio monarchico), ma il principio sacrosanto di una politica per il popolo.

I populismi funzionano perché almeno il popolo ha la vaga sensazione che qualcuno si sia accorto di loro. Perché non diventi un'ideologia scomoda, la sovranità popolare deve sempre essere ripensata chiedendosi chi sia il popolo e quali direzioni si devono assumere perché i diritti individuali e collettivi vengano mantenuti.

Non che sia facile. Ma le cose belle non sono mai facili!

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