IL BAOBAB NON LO VOGLIONO PIU'


di Maria Teresa Abbagnale (@AbbagnaleMariaT)


Scorrendo distrattamente tra alcune pagine web, qualche giorno fa, la mia attenzione è caduta su un articolo titolato “Cosa sgomberano al Baobab”. Mi fermo un attimo e mi chiedo dove avessi già sentito o visto questo nome. Poi ricordo. 

Per andare all’università spesso passo per via Tiburtina. Poco dopo il ponte il tratto di strada è sempre trafficato, soprattutto al mattino. Mi piace sbirciare tra i bar, tra le officine che aprono e la gente che cammina sul ciglio della strada, in attesa che il semaforo diventi verde. 

Ma quest’estate una cosa in particolare ha attirato la mia attenzione: uno dei cancelli che affaccia sulla strada era pieno di asciugamani, vestiti, pantaloni appesi sulla sua estremità. Guardo meglio e vedo tante, tantissime persone lì attorno. Erano quasi tutti africani e in quei giorni il centro era pienissimo. 



Il traffico scorre, la macchina va un po’ avanti e si ferma di nuovo. Davanti ai miei occhi scopro una viuzza stretta stretta, mai notata prima di allora, piena di persone, di colori, di bambini: chi giocava con la palla, chi chiacchierava… e sulla sinistra un enorme cartello con scritto “Centro Baobab”. 

Il pensiero corre velocemente alle stragi nel mediterraneo. A tutte quelle persone che tentano, disperatamente, di salvare la loro vita salpando su un gommone e cercano di raggiungere la terraferma. Quelle persone al centro Babobab sono quelle che ce l’hanno fatta. Quelle persone che sono sopravvissute. 

E così ogni mattina, quando passo di lì per quella strada, da quel giorno, volgo sempre il mio sguardo verso quella piccola via colorata e allegra, la viuzza di chi ce l’ha fatta, la viuzza della “vita”. 
Ecco dove avevo sentito questo nome. 

Il Baobab è un centro di prima accoglienza e vive grazie all’impegno di alcuni volontari che negli ultimi mesi hanno accolto quasi 35mila persone in fuga dai loro Paesi e diretti verso il Nord Europa. Il modello di accoglienza utilizzato al Boabab è un modello che ha funzionato e non è costato nulla allo Stato. 

Due parole d’ordine: umanità e accoglienza. L’obiettivo è quello di offrire un riparo temporaneo in attesa dei documenti e dei trasferimenti in altri paesi d’Europa. Nel centro ci sono solo volontari che con passione e dedizione impiegano il loro tempo per aiutare gli altri; i vestiti, gli alimenti sono donazioni dei cittadini romani, che hanno mostrato in questi mesi molta più umanità di quanto non lo abbiano fatto fino ad oggi le istituzioni. 

Sgomberano il Baobab. E i motivi sono banali, se paragonati all’obiettivo perseguito da questo centro: il proprietario di questi locali e il Campidoglio non sono riusciti ad addivenire ad un accordo circa l’utilizzo di questo posto e l’unica soluzione trovata fino ad ora è stata quella dello sgombero. Senza alcuna alternativa per le persone che attualmente vivono lì. 



E mi chiedo: un mancato accordo può causare lo sgombero di un centro di accoglienza che funziona? Di una cosa “umana”? Il rischio è che la ricerca assidua del rispetto delle regole (…) faccia venire meno il centro delle cose, la parte essenziale delle stesse. Il centro funziona… ma non può restare in piedi, perché non c’è un accordo. 

Una questione burocratica riesce a “prevalere” su una questione umana. 

E mi chiedo se questo “sgombero” non mascheri invece paure diverse. Se il populismo dilagante di questi ultimi tempi non stia incidendo in modo determinante sul destino di queste persone, di questi uomini che cercano aiuto. Se la paura ci stia facendo perdere l’umanità. 

Come sempre più spesso accade, queste piccole realtà “che non convengono a nessuno” ma che hanno come unico obiettivo l’accoglienza e non il “guadagno” sono costrette a vivere in una situazione di forte instabilità e precarietà. 
Fortunatamente, per ora, l’attenzione dei media ha evitato lo sgombero atteso nella mattinata di ieri, 4 dicembre 2015. Ma è un rinvio. L’obiettivo è quello di procedere allo sgombero e porre fine ad un’esperienza di umanità.

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